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LA LUCE

 

La luce nell'architettura moderna
 
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Quando Le Corbusier, circa 250 anni più tardi, espone nei "5 punti" le modificazioni da lui apportate ai principi architettonici, le sue argomentazioni sono simili a quelle di Perrault. Non si tratta semplicemente di negare l’antico per mettere meglio in luce la validità del nuovo. Al contrario, è determinante far apparire plausibile e vantaggioso il nuovo rispetto ai criteri tradizionali. Per rendere accettabile il plan libre, Le Corbusier aggiunge, applicando in parte gli stessi concetti, "car nous aimons l’air, le jour & les dégagements". Così pure la fenetre en longueur naturalmente non è soltanto un puro dispositivo tecnico di illuminazione, bensì una geniale idea architettonica per portare a perfezione il problema dell’illuminazione. Qui viene in sostanza formulata e raggiunta la sintesi, che già Teichmuller ipotizzava per la sua "architettura della luce". A partire dalle condizioni offerte dai nuovi materiali nascono alcuni vantaggi che l’architetto deve saper sfruttare: "Réduíre les éléments portants à des dimensione moindres, c’est permettre l’accès libre de la lumière", questa è la formula proposta da Sigfried Giedion nel suo saggio Lumière et Construction, sulla base di tali premesse. L’interazione dei vantaggi costruttivi e degli effetti della luce viene qui immessa in un contesto storico da Labrouste a Freyssinet.

Il valore di questa ulteriore argomentazione diventa chiaro soltanto quando ci si confronta direttamente con le prospettive offerte dalla nuova tecnologia. Le Corbusier parla di luce e non di illuminazione elettrica. Per contro, André Lurgat, nel suo libro Architecture comparso nel 1929, prende in considerazione la luce artificiale. Sebbene egli sostenga in primo luogo l’adattamento dell’architettura alle nuove invenzioni, sono proprio queste innovazioni derivanti da "les techniques modernes et le machinisme", che egli fa passare per "les eléments nouveaux", in modo analogo ai 5 punti di Le Corbusier: i pilotis, le terrasses, la fenétre, la couleur, la lumière artificielle. L’accento è stato spostato dall’ambito dei principi e dei simboli al "campo di applicazione". Lurcat sa trovare formulazioni convincenti sul piano della retorica, per rendere chiara l’importanza della luce elettrica, nonché delle sue conseguenze ancora scarsamente prevedibili: "jusqu’à maintenant, dans la maison, presque toute vie disparaissait le soir eri méme temps que la lumière naturelle". Ora sarebbe sopraggiunto un evento che avrebbe prodotto un decisivo miglioramento della vita domestica. L’euforia provocata da questa nuova prestazione tecnica prevale in senso assoluto, nonostante il persistere di qualche dubbio a proposito della costante esposizione ai campi magnetici! Tale positiva argomentazione spiega, d’altra parte, le opposte manifestazioni di scetticismo nei confronti di un’utilizzazione sconsiderata del nuovo strumento. Hegemann, l’urbanista e teorico che mostra un’aperta opposizione alla "metropoli" che cresce in altezza senza controllo, critica nello stesso periodo (1929) il sempre minor soleggiamento degli edifici a New York e, con un po’ di sarcasmo, aggiunge: "A questo proposito i professori dimostrano ora che l’illuminazione artificiale è più consigliabile della luce del sole". Naturalmente, in ogni caso, la critica è ed è stata avanzata là dove la luce elettrica veniva sfruttata come puro ripiego. Il conflitto era inevitabile.

Hegemann aveva citato Hugh Ferriss come il "poeta più efficace e di successo" dell'interpretazione romantica del grattacielo e, nello stesso tempo, lo aveva indirettamente criticato. La combinazione dei suoi argomenti è sintomatica. Ancora una volta, la ricerca scientifica e il trattamento artistico della luce si contrappongono apertamente. In questo campo di tensione resta comunque uno spazio sufficiente per tutte le mistificazioni e le trasfigurazioni che si riferiscono alla luce, che diventano sempre più numerose nel contesto dell’effettiva applicazione della luce elettrica. La stessa scomposizione della luce attuata da Newton con il prisma non fu acclamata dal punto di vista "fisico", bensì venne trasfigurata in immagini di un simbolismo divino, metafisico. Sono proprio gli elementi principali dell’esperimento fisico, il raggio di luce, il prisma, lo specchio, a essere rappresentati, per esempio, nell’apoteosi di Newton (1730) dipinta da Pittoni e Valeriani, che li mettono in scena servendosi di uno spazio sacro, in modo tale che è inconfondibile il parallelismo con l’allegoria della divina verità portata agli uomini attraverso i raggi (divini). In questo modo, da una scoperta fisica, esattamente nel senso di Voltaire, è nata una "filosofia"!

Si misconoscerebbe il moderno, se gli si negassero tali possibilità di autovalutazione culturale. Con l’introduzione tecnica della luce elettrica nell’architettura, la questione dell’elettricità, e ancor più quella della luce, non è stata in alcun modo esaurita. Ci volle comunque del tempo prima che il nuovo mezzo si creasse anche un nuovo linguaggio. E, dalla mancanza di un linguaggio, trasse profitto l’immaginazione. Ad esempio, per rappresentare e descrivere i "problemi di illuminazione nell’architettura sacra medievale", l’architetto si serviva di concetti quali il "chiaroscuro pieno di temperamento" oppure, "secondo l’ora del giorno", "una vivace fluttuazione" e distingueva fra ciò che era "ancora informe e arbitrario" e ciò che era "organizzato e per così dire ben plasmato". Una simile quantità di immagini per la luce, che solo allora iniziava ad essere introdotta in modo risoluto e calcolato! Se si fosse rivolta l’attenzione soltanto a questa "nuova conquista", allora la si sarebbe potuta apprezzare appieno. La già citata, e pur tarda, pubblicazione su Lichtarchitektur di Walter Kohler, non a caso aveva anteposto, e si era già nel 1956, all’esposizione oggettiva una "sequenza di immagini". Queste immagini erano state raccolte da Wassili Luckhardt, le cui precedenti fantasie espressioniste erano note a tutti. Luckhardt esalterà d’ora in poi la luce, a partire dalla "nebulosa gassosa in Orione" e dalla "esplosione della bomba atomica", in tutta la sua ampiezza universale, dal cosmico all’apocalittico. Egli mostrava il dispiegarsi di un nuovo mondo grazie alla nuova luce ("La possibilità di rendere visibili le tensioni interne attraverso la luce polarizzata") e ne presentava in modo sistematico la conseguente applicazione. Gli slogan vanno ora dalla "geometria della luce" e dalla "forma della luce" agli effetti di trasparenza, di assenza di gravità, di dilatazione spaziale e, non ultimo, alla "umanizzazione dell’ambiente di fabbrica". In modo conforme al repertorio figurativo del moderno, vengono presentati gli effetti, vengono messi in scena i contrasti, viene posta in primo piano la "mistica di mondi contrapposti",il duomo di Colonia illuminato a confronto con Manhattan risplendente di notte. La luce ha così trovato la sua apoteosi anche nella sua forma moderna, "elettrica".

Nel 1956, Wassili Lukhardt poteva ripercorrere una lunga esperienza, sia pure indiretta, con il nuovo mezzo della luce artificiale. Nel frattempo era stata percorsa una lunga strada di lavoro e di sperimentazione. Nel 1927, secondo le affermazioni di Teichmuller, che abbiamo citato all’inizio, si era ancora agli esordi. Nel 1927, anche Waher Curt Behrendt, nel suo libro Der Sieg des Neuen Baustils, si era pronunciato a favore delle nuove possibilità. Egli parlava esplicitamente del "problema formale della luce artificiale", per poi aggiungere che, pur essendo forse "uno dei più interessanti e affascinanti" problemi che oggi vengono posti all’architettura, "si tratta però anche di un problema che finora ha trovato scarsa considerazione, e tanto meno una successiva applicazione pratica". Behrendt aveva in mente l’applicazione della luce elettrica intesa "come efficace strumento per la sistemazione degli spazi interni, l’individuazione delle funzioni e del movimento nello spazio, come pure per l’accentuazione e il rafforzamento delle relazioni e delle tensioni spaziali". Egli voleva poter introdurre nel modo migliore la luce liberatasi attraverso il mezzo dell’elettricità, e si serviva di argomentazioni analoghe a quelle addotte da Le Corbusier per il plan libre. Tuttavia il tipo di giudizio avanzato da Behrendt sulla situazione attorno al 1927 confermava quanto poco si era fatto in questa direzione: "Non di meno l’applicazione di queste aumentate possibilità è soltanto iniziata. In realtà, finora soltanto le réclame luminose hanno fatto abbondantemente uso di questa nuova libertà".(Werner Oechslin).

 

 

Coop Himmelb(l)au

 

Media tower ad Amburgo

Il primo esempio che analizziamo è quello relativo al progetto della Media- tower progettata dalla Coop Himmelb(l)au nei banks di Amburgo, nel 1985, che rientra in un più vasto progetto di riqualificazione urbana della zona portuale della città.

La torre è costituita da un nucleo centrale piuttosto compatto al quale si aggregano una serie di corpi "taglienti", delle "lame", che ne determinano il particolarissimo skyline.

 

 

Coop Himmelb(l)au

 

Cinema multisala UFA a Dresda

 

ufa1.jpg (12684 byte) Il "palazzo di cristallo" di Coop Himmelb(l)au, relativo al cinema multisala realizzato, a Dresda, dal gruppo cinematografico UFA, è frutto di un progetto, eppure si presenta come un oggetto naturale: una gigantesca scultura all’aperto priva di un fronte e di un retro, di un sopra e di un sotto: un’esplosione drammatica di forme ammassate l’una sull’altra destinata a trovare pochi sostenitori non soltanto tra gli onesti cittadini di Dresda ma anche presso i critici specializzati, solitamente facili agli entusiasmi.
 

Wolf Dieter Prix e Helmut Swiezinsky, la coppia di designer viennesi il cui nome d’arte Himmelb(l)au richiama alla memoria tempi ben più movimentati, redigevano nel 1980 un manifesto leggendario: "Vogliamo un’architettura", vi si legge, "che sanguina, che si consuma, che ruota e si squarcia per causa nostra. Un’architettura che illumina, che punge, che fa a brandelli ogni cosa e si strappa sotto tensione. Quando è fredda dev’essere fredda come un blocco di ghiaccio; quando è calda dev’essere calda come una lingua di fuoco. Un’architettura che deve bruciare". Tuttavia nella maggior parte dei casi a queste parole fiammeggianti non sono seguite azioni all’altezza. Perciò e a maggior ragione tutto il mondo attendeva con trepidazione l’edificio di Dresda, considerato un vero esempio. E ora che ce l’hanno davanti gli stessi fedeli adoratori del loro estremo antifunzionalismo si sentono come annientati.

ufa2.jpg (7410 byte) Il cinema multisala è costituito da due corpi di fabbrica un volume compatto in cemento alquanto scarno, articolato soltanto nei profili, che racchiude le otto sale di proiezione (anzi per la verità solo quattro, perché le restanti sono interrate) e un secondo corpo predominante, che ha la forma di un gigantesco cristallo aperto in tutte le direzioni e sovraccarico di foyer in metallo e vetro.

I due corpi di fabbrica sono disposti obliquamente e collegati da un semplice giunto rettilineo, in modo da evitare qualsiasi compenetrazione; una suddivisione coerente che offre la possibilità di differenziare il linguaggio progettuale degli esterni a seconda delle visuali, proponendo gesti architettonici completamente diversi. Eppure l’interno di questa complessa scultura architettonica viene trattato in maniera inaspettatamente banale: da una parte il cinema e dall’altra il ridotto. Tutto qui. Inclinazioni e intagli contribuiscono a plasmare le imponenti superfici esterne dell’involucro di cemento, restituendo un’immagine sorprendentemente "flottante". Purtroppo però le sale cinematografiche richiedono un grande numero di scale di sicurezza, che in questo caso sono state posizionate all’esterno dell’edificio e nascoste dietro schermi di grandi dimensioni in grigliato metallico. Ne risulta un motivo insolito e davvero affascinante in un formato così grande, anche se le scale hanno una profondità tale sul fianco dell’edificio da non agevolare la percezione degli schermi come di un vero e proprio rivestimento di facciata. Le stesse sale cinematografiche sembrano come schiacciate l’una sopra l’altra per imprescindibili esigenze di economia; ai percorsi di distribuzione, ai foyer intermedi e all’atrio delle casse al piano terra sembrano essere riservati solamente gli spazi di risulta tra le solette inclinate delle sale, tanto che si ha continuamente l’impressione di essere costretti ad abbassare la testa.

Forse questa sensazione opprimente di angustia è intenzionale, perché il foyer vetrato, il cui disegno slanciato e ambizioso sembra prendersi gioco delle leggi della gravità terrestre, pare preludere al contrario a un’esperienza spaziale audace e senza precedenti. Un’anticipazione che ha senso solo per chi osserva dall’esterno perché gli architetti, come se non avessero spinto il volume fino ai confini del realizzabile dal punto di vista statico, trasformano poi lo spazio interno in un labirinto tridimensionale: gremito di scale, logge, passerelle sospese, ascensori e altri pozzi di cemento, quest’ultimo somiglia piuttosto all’interno di un antico orologio meccanico. Perfino là dove pur con tutta la buona volontà possibile non era più possibile collocare alcunché di necessario sono stati inseriti elementi di riempimento che lasciano perplessi: una specie di vela di piombo sovradimensionata e uno "sky-bar" strutturalmente ingenuo che ha la forma di un gigantesco piatto di metallo, sospeso al soffitto tramite cavi tesi dal profilo conico. Nonostante le vetrate continue, lo sguardo ricerca inutilmente il cielo blu che dà il nome al duo viennese. L’intenzione di andare contro stereotipi spaziali consolidati e prospettive consuete precipita in questo edificio in una confusione senza regole e perfino in un’oppressione che rasenta l’aggressività: è una presa in giro o un errore? Niente di più diverso ci si sarebbe aspettato di trovare all’interno di un "cristallo di vetro" che una replica delle Carceri piranesiane.

Il disagio dovuto a questa sorta di terrore ottico viene rafforzato ancora di più da una scelta di materiali che farà certo venire i brividi agli stessi puristi della sincerità costruttiva. All’esterno come all’interno vi sono soltanto tre tipi di materiale, cemento, vetro e acciaio zincato, e un solo colore, il grigio. Inoltre il cemento non è a vista, cioè rifinito, ma è semplicemente grezzo e mostra tracce evidenti di una lavorazione poco accurata. Tutti i componenti metallici sono di fattura talmente grossolana che i migliori costruttori di edifici prefabbricati si vergognerebbero di un lavoro simile. Se questa era l’intenzione, il risultato è stato certo raggiunto. Ma in maniera controproducente, perché non solo la direzione del cinema è stata costretta già nei primi giorni a far rivestire le pareti troppo inclinate con imbottiture di gomma per evitare che i più distratti si ferissero alla testa, ma tra breve dovrà provvedere addirittura a sigillare tutte le superfici irregolari e scabre dell’edificio se vorrà evitare di soccombere nell’eterna lotta con la polvere e lo sporco. All’inaugurazione del multisala i cittadini di Dresda si chiedevano se qualcuno per caso avesse attribuito loro una predilezione per gli edifici non finiti. Eppure questa critica non corrisponde solo all’oscillazione tra un candore tipicamente provinciale e uno stato d’animo di indignazione: c'è una grande differenza tra una "durezza schietta" e un semplice disinteresse per la perfezione delle finiture, e questo dovrebbero saperlo anche gli architetti di avanguardia. Resta ancora da chiedersi quale sarà l’impatto sulla città di un’opera architettonica così aggressiva, che occupa in maniera davvero invadente uno stretto angolo situato tra la fredda razionalità della Prager Straße (un prodotto degli anni Sessanta), le cortine uniformi degli edifici residenziali costruiti negli anni Ottanta e i grandi magazzini degli anni Novanta, un angolo la cui densità edilizia aumenta di giorno in giorno. Nella concentrazione tipicamente urbana finalmente riconquistata dai nuovi quartieri di Dresda il cinema multisala appare po' sopra le righe: mentre l’intero centro storico è martoriato da grandi aree libere, in questo contesto un edificio così solitario ed espressivo finisce per apparire soffocato. Ci si può consolare osservando come il gigantesco fronte posteriore del corpo delle sale di proiezione offra una nuova ed energica definizione al margine finora scoperto della Petersburger Stmße, un’ampia arteria di collegamento. Solamente qui il nuovo edificio risulta in armonia con il tessuto urbano contemporaneo, perché il fronte d’ingresso vetrato difficilmente può rappresentare uno stimolo per il contesto urbano. Al di là della gestualità esplosiva il lungo fronte dei foyer ricorda, nel profilo, l’immagine di una bandiera al vento. L’albero obliquo è piantato nel centro irrequieto della nuova compagine urbana di Dresda, e da lì si muove verso i paesaggi aperti della città ricostruita. A differenza di molti cittadini e architetti di Dresda, Coop Himmelb(l)au non intende rinunciare apertamente anche in futuro a "luce, aria e sole". (Wofgang Kil)

 

 

Toyo Ito
 

Porta di Okawabata

Torre dei venti di Yokohama

ito4.jpg (10045 byte) La porta della città di Okawabata River City 21 è un uovo di 16 metri di lunghezza e di 8 metri di diametro ricoperto di pannelli di alluminio e sospeso di fronte a due alti edifici di appartamenti. Durante il giorno l’uovo è un semplice oggetto che riflette la luce del sole, ma di notte, quando i cinque elementi dei proiettori a cristalli liquidi sono in funzione, si illumina con delle riprese video, registrate o trasmesse dalla televisione, proiettate sugli schermi interni e sulla superficie di alluminio parzialmente traforata.

L’uovo, che di giorno brilla di una luce argentata, di notte si trasforma in una entità a tre dimensioni, vaga e irreale come un’olografia. I passanti che guardando in alto vedono l’uovo, si fermano per un attimo, si chiedono che cosa sia e poi proseguono. E’ un oggetto molto diverso dagli impianti televisivi installati sui pali della strada o sullo schermo gigante a colori affisso sul muro di un edificio in città. E’ l’oggetto creato dalle immagini video che fluttuano nell’aria satura di informazioni. E’ l’oggetto delle immagini portate dal vento e dal vento risospinte altrove.

Mentre stavamo progettando l’uovo dei Venti, esponevamo a Bruxelles il modello della prima ipotesi per la porta della città di River City 21, che aveva la forma di una nave o di un poliedro a facce triangolari. L’uovo di Bruxelles aveva una base di materiale acrilico trasparente ed era rivestito con un tessuto semitrasparente e con dei pannelli di alluminio traforato. I visitatori non potevano entrarvi ma attraverso i rivestimenti semitrasparenti, grazie alla luce naturale che spioveva dall’alto, potevano vedere le sedie e i tavoli installati all’interno. Vedevano la vita cittadina compressa dentro all’uovo come se fosse un’illusione. Oggetti precari come un miraggio, privi di materia e di esistenza. Oggetti effimeri, più simili a un fenomeno spontaneo come l’arcobaleno che a dei corpi solidi. Potremmo forse definire queste due "uova dei venti" come il "design del vento". Quando nell’aria densa di informazioni e non ancora visualizzata creiamo uno schermo, questo stesso diventa visibile. I gesti dell’architettura di oggi dovrebbero inventare lo schermo che rende possibile tale visualizzazione.

La torre dei Venti che ho costruito diversi anni fa davanti alla stazione di Yokohama, in Giappone, esprime molto efficacemente questo concetto di design del vento. La torre, installata fra le luci al neon del centro, ammicca in modo meno spettacolare delle altre insegne pubblicitarie, ma, dicono, sembra filtrare e purificare l’aria intorno.

L’uovo dei Venti a River City 21 in origine doveva essere il modello ideale della casa futura, ma dati gli alti costi dell’involucro finì con l’essere solo un uovo. Quello che originariamente si sarebbe dovuto vedere nell’aria era il nuovo stile di vita in una città simulata.

L’uovo dei Venti di Bruxelles si chiamava Pao, come le case delle donne nomadi di Tokyo che per me erano il migliore esempio di residenza cittadina. Rappresentava l’immagine di una vita urbana che con il progressivo affermarsi della visualizzazione perde quotidianamente realtà. Le due uova hanno in comune il fatto di essere dei contenitori che implicano un nuovo stile di vita. Con esse ho voluto dimostrare che la perdita di realtà della vita urbana rappresenta l’altra faccia della medaglia dell’architettura fatta per immagini. In ogni epoca il sogno di una nuova vita origina uno spazio nuovo. Per esempio, negli anni intorno al 1975 si sognava una vita moderna in uno spazio pieno di strumenti elettrici, simbolizzato da una casa con il tetto piatto e grandi aperture o da una casa molto luminosa con un piccolo tetto spiovente, con una cucina con il frigorifero e il forno a gas incassati e in sala da pranzo delle sedie fatte di tubi cromati con gli schienali di legno ricurvo e sottile ecc. Quella vita modernizzata propugnava il modello della famiglia mononucleare utilizzando delle immagini felici. Il padre, in camicia bianca, lavorava in un ufficio moderno costruito in vetro e acciaio e, quando tornava a casa, veniva accolto in quella cucina e in quella sala da pranzo dalla moglie e dai figli sorridenti. Completavano l’immagine di una vita nuova la Volkswagen o la Citroen 2cv posteggiate davanti a casa.Ma mentre nell’epoca elettrica la vita ideale creava nello spazio moderno dei corpi fisici, ancora non abbiamo trovato uno spazio adatto alla vita ideale nell’epoca del computer. La nostra epoca si riflette con più efficacia nella differenza fra la Volkswagen e la Citroen di allora e la Toyota e la Nissan di oggi piuttosto che nelle case. In particolare, la Volkswagen e la Citroen erano progettate con delle forme che suggerivano la varietà delle funzioni meccaniche, mentre le automobili giapponesi di oggi, equipaggiate con le più sofisticate intelligenze elettroniche, non sono che imballaggi progettati con un design superficiale che a quella tecnologia neppure accenna. Le auto di oggi sono progettate con un’immagine quasi indipendente dal meccanismo, e le altre apparecchiatura domestiche si basano sullo stesso principio. Mentre il design delle auto e il design industriale cercano di individuare uno stile moderno per rispondere al bisogno di moda dei consumatori, il progetto delle case è decisamente orientato, sebbene in modo altrettanto superficiale, verso il conservatorismo. Nel mondo dell’architettura, in cui funzioni e forme non sono necessariamente in relazione, con l’aumento del prodotto nazionale lordo giapponese lo stile è stato orientato in una direzione nostalgica. ( Toyo Ito ).

 

 

Bibliografia

 

La luce come artificio – Città della notte – Architettura e media, LOTUS 75, mar./mag. 1993.

WERNER FRANK, Coop Himmelb(l)au. The power of the city, Vienna,1988.

WOLFGANG KIL, WOLFGANG BACHMANN, "Cinema multisala UFA, Dresda", Domus 807, settembre 1998, pp.8 – 17.

DERRIK DE KERCKHOVE, "Sensorialità", Domus 805, giugno 1998.

LUIGI PRESTINENZA PUGLISI, HyperArchitettura – Spazi nell’età dell’elettronica, Torino, 1998.

GERHARD SCHMITT, Information Architecture – Basi e futuro del CAAD, Torino, 1998.

 

 

Autori:   Lorenzo Grifantini e Francesco Saverio Lauciello