12. I Nervi di
Morandi o le reti di Musmeci
Riccardo Morandi
è stato insieme a PierLuigi Nervi la figura di punta tra gli ingegneri
italiani. Ha contribuito allo sviluppo tecnico delle costruzioni in cemento
armato, ma ha soprattutto creato strutture che risolvono il calcolo statico
in potenti composizioni spaziali. Mentre a partire dal dopoguerra, la tendenza
progettuale di Nervi si è concentrata verso la ricerca di un equilibrio
rassicurante, spesso simmetrico e statico, Morandi raggiunge i più
rilevanti risultati tecnici ed estetici puntando sul tema opposto. Come
ha notato Bruno Zevi, le strutture di Morandi sembrano raggelate un momento
prima del crollo. Mensole e sbalzi, travi appoggiate, archi a tre cerniere,
stralli e telai (tutto quel complesso di figure statiche che formano i
famosi "ragni" - croce e delizia degli studenti di ingegneria e architettura)
si giustappongono in maniera niente affatto classica e rassicurante: alla
luce dei metodi costruttivi tradizionali, le sue strutture sono anzi irrealizzabili
e proprio per questo risultano efficienti, logiche ed economiche per le
ragioni del cemento armato.
Morandi è stato per tutta la vita il nume di un’unione fortunata: quella tra il calcestruzzo da una parte e il ferro dall’altra. L’uno che risponde agli sforzi di compressione con la geometria e la massa delle sezioni, l’altro agli sforzi di trazione con l’elasticità del materiale, insieme, e per questo si parla di matrimonio fortunato, dilatandosi in maniera analoga alle sollecitazioni termiche. Il risultato è un materiale solidale, forte, indistruttibile, plasmabile in forme e schemi statici infinitivi che permette, attraverso la tecnica della precompressione, di raggiungere luci molto elevate e la realizzazione delle grandi opere della tecnica moderna.
L'ingegnere Morandi, nato nel 1902, sperimenta le potenzialità del cemento armato e della precompressione in strutture a destinazione diversa, dalle abitazioni alle sale di spettacolo, dalle autorimesse agli hangar, dai ponti ai viadotti.
Prima della guerra lavora in un intenso rapporto mecenate-progettista per la nuova città industriale di Colleferro operando a tutto campo dalla pianificazione alla realizzazione di stabilimenti e servizi. Negli anni Trenta si cimenta anche nella progettazione di sale di spettacolo; l’Augustus, ricavato all’interno di un edificio esistente che incunea una nuova struttura larga 18 metri che sopporta i tre piani superiori al cinema, e il Giulio Cesare, di ben 2000 posti il cui il dato caratterizzante è la balconata curvilinea che ospita la galleria.
Il lavoro sulle sale di spettacolo ha il suo più importante episodio nella realizzazione del cinematografo Maestoso sempre a Roma della metà degli anni Cinquanta. Si tratta di un edificio pluriuso di 50.000 metri cubi che rappresenta lo stato dell’arte tecnologico del momento. E’ un cinema da 2600 persone, sei abitazioni superiori, sale sotterranee per intrattenimenti e due braccia ad un piano per bar e tavola calda. L’insieme funziona da condensatore pubblicitario e commerciale in una periferia cresciuta tutta con le regole di una feroce speculazione. Morandi opera con schiettezza sulla diversità delle funzioni. Crea un pacchetto di abitazioni superiori rigorosamente seriali e rivela la funzione pubblica portando in facciata la scala del cinematografo visibile attraverso il vetro dei pannelli. L’interno del cinema è un canto strutturale di piedritti a sezione variabile che fanno viaggiare i pesi orizzontali delle balconate a sbalzo sino al loro punto di scarico. Ma l’intera costruzione è caratterizzata principalmente da sei portali zoppi che partono dall’atrio e, attraverso i 40 metri della sala, vanno a poggiare su un traverso che contiene lo spazio scenico. L’intera costruzione, compresi i tre piani di appartamenti superiori, risulta sostenuta da questo enorme telaio. Tecnicamente l’opera sfrutta il principio della precompressione alla quale Morandi ha attivamente lavorato sin dagli anni della guerra realizzando anche sette sistemi brevettati per la tensione dei cavi di acciaio.
Nelle grandi
costruzioni per gli aviogetti, Morandi realizza delle coperture appese
sui supporti periferici per non avere ostacoli negli spazi di lavoro. Nel
primo hangar, una mensola in aggetto di 60 metri sostenuta da stralli viene
ripetuta identica in serie parallele, mentre in quello realizzato circa
dieci anni dopo, la copertura è concepita come una tenda sostenuta
da tiranti con sviluppo radiale a partire dai tre supporti vericali. In
entrambi i casi il cemento armato viene adoperato perseguendo l’idea e
l’immagine di leggerezza dei reticoli di stralli contro il cielo.
Nella struttura
ipogea torinese di 69 metri di ampiezza 151 di lunghezza e otto di altezza,
lo sforzo è al contrario nella ricerca plastica e nel ritmo delle
potenti travature a sezione variabile che si raccolgono nei supporti inclinati
e incernierati al suolo, già sperimentati in tanti ponti. La costruzione
viene allo stesso tempo irrigidita e dinamicamente scandita attraverso
l’abbinamento dei ritti, che ne spezza una monotona ripetizione seriale,
e con l’incrocio delle travature le quali, congiungendo in obliquo ritti
sfalsati, crea in mezzeria dei rombi di vetrocemento da cui penetra la
luce. Se negli involucri dei suoi edifici l’ingegnere rivela qualche rigidezza
ed elementarietà, in questo salone sotterraneo e nei suoi molti
ponti è completamente libero di integrare in un unico gesto calcolo,
schema statico e spazio architettonico. Ciò rende vana ogni distinzione
tra tecnica e arte (o tra ingegneria e architettura) e dà forma
a quell’attimo fuggente che per Morandi è l’equilibrio.
Un capitolo internazionalmente noto della sua attività viene segnato dai ponti e dai viadotti, realizzazioni in cui si coagula lo sforzo tecnico verso l’attraversamento di grandi distanze alla tensione tridimensionale delle membrature. Anche qui l’ingegnere sperimenta: dalle strutture a trave a quelle ad arco ai sistemi con stralli e telai. Del primo caso basti ricordare il cavalcavia a Corso Francia a Roma e il Ponte Vespucci a Firenze in cui l’aspetto tecnico della precompressione viene risolto nella elegante essenzialità dei profili e nella tensione estetica verso l’orizzontale; del secondo, il ponte sullo Storms River in Sudafrica nel quale la realizzazione (basata sulla rotazione di due archi costruiti in verticale e poi abbassati ad appoggiarsi in chiave) è altrettanto importante della progettazione stessa. Ma le opere più importanti e interessanti si fondano su uno schema lontano da ogni struttura voltata o trilitica del passato. Risulta formato da due compassi strutturali ribaltati che determinano i supporti verticali.
Il primo, più piccolo, è incernierato sulla base di appoggio e sorregge a mensola la prima parte della travatura, mentre il secondo - più grande - si impenna nello spazio ad ancorare gli stralli cui è appeso il secondo tratto della travatura. Le forme scultoree e l’equilibrio magico di forze interagenti coaugulate in questo schema statico rappresenta il marchio e il logo di Morandi e gli permette di portare a compimento incarichi prestigiosi per tutta l’arte italiana del costruire: il ponte di nove chilometri sulla laguna di Maracaibo in Venezuela all’inizio degli anni Sessanta, il viadotto sul Polcevera a Genova del 1964, il Ponte sul Wadi El Kuff in Libia completato nel 1971. Sono impetuosi interventi dell’uomo sulle grandi dimensioni della natura o della città di cui molto si tratta e si discute sul catalogo. Ma con lo stesso equilibrio di forze dà vita anche a piccoli episodi altrettanto calibrati e belli come il Viadotto sull’ansa del Tevere del 1965.
***
Nelle scuole di architettura italiane vi sono molti esami dedicati alla scienza delle costruzioni. Il neo-laureato acquista basi solide per effettuare un dimensionamento corretto delle strutture secondo una impostazione "di verifica" all’interno di morfologie e di schemi statici già dati. Tutta l’esperienza e il lavoro di Sergio Musmeci cercò invece di fare un ragionamento "per forma".
Non il corretto
dimensionamento di morfologie astratte e scatolari nate per tutt’altre
ragioni, ma un ragionamento che cerchi la forma migliore per veicolare
le forze. Una forma cioè intimamente logica e allo stesso tempo
necessariamente innovativa. Diceva ai suoi studenti del corso di Ponti
e grandi Strutture alla Facoltà di architettura di Roma che la strutturistica,
nata nell’Ottocento come scienza positivista, si poneva verso le strutture,
come davanti alla natura, come se entrambe fossero qualcosa di ‘dato’ che
si può solo indagare. La struttura, e l’architettura in genere,
al contrario, sono per Musmeci create dal progettista. "Proprio come una
teoria di fisica moderna che viene creata dal fisico". La creatività
è dunque alla base della scienza contemporanea e l’ingegneria ne
è parte integrante.
Chi ha conosciuto Sergio Musmeci ne conserva un ricordo vivissimo e spesso usa per trasmettere l’importanza di questo incontro la parola "genio".
Manfredi Nicoletti, architetto attivo sin dagli anni Sessanta con grandi opere oltre che autore di saggi sull’architettura antica e moderna, scrive su Musmeci un libro che è prezioso per l’intreccio di almeno tre livelli di lettura. Il primo è informativo. Per la prima volta in volume, dopo i lontani n. 80 di Parametro e n. 387 de L’architettura , viene fornito un panorama illustrativo e una bibliografia per l’approfondimento delle opere principali di Musmeci, alcune veramente importanti e straordinarie come la sua proposta per il Ponte sullo stretto di Messina del 1970, il ponte sul Basento del 1969 o quello sull’Appia Antica del 1979 portato a compimento dalla moglie Zenaide Zanini dopo la prematura scomparsa del progettista nel 1981.
Guardare queste
e altre opere è emozionante. Si scopre, tra l’altro, come alcune
tecniche della progettazione contemporanea, come quella del folding
così centrale nella ricerca di Peter Eisenman, avessero trovato
anticipazioni e ragioni strutturali proprio nella ricerca di Musmeci.
Nello stabilimento industriale realizzato a Pietrasanta nel 1956, la Cappella dei ferrovieri e la Palestra del Coni a Vicenza, il Teatro Regio, con Carlo Mollino, a Torino si vede in azione il pieghettarsi delle strutture. Da una parte è ragione statica (logica innovativa per irrigidire la struttura e quindi per risparmiare materiale e diminuire le sezioni) dall’altra è strumento per inventare strutture-paesaggio. D’altronde da Maillart a Calatrava a Morandi a Musmeci, questo è orizzonte imprescindibile. Nelle strutture ci si misura con la natura per affrontarla e per esserne nuova parte.
La seconda chiave del libro è nella scrittura pertinente, precisa, mai pedante con la quale Nicoletti esprime il centro dei ragionamenti strutturali di Musmeci. Perché il grattacielo cui hanno insieme collaborato nel 1971 si sviluppa a elica permettendo al vento di scorrervi via, perché la grande struttura del ponte a Messina si muove sull’idea della campata unica con una rete di stralli che avvolge l’impalcato tenendolo compresso verso i piloni e contribuendo così alla rigidità dell’insieme, perché attraverso le curve a spirale della nervature del palazzetto dello sport a Roma si minimizza la spinta della volta eccetera. Nicoletti fa capire come un ragionamento effettivamente creativo sulla struttura diventi forza dell’architettura . Ne discende che "La forma è l’incognita, non le tensioni" e poi le altre sezioni del saggio che riguardano "Le forze esterne", "La forma e il minimo strutturale", "La forma limite, l’azione statica e la materia" "L’espressività delle strutture", "Sistemi continui, discreti e misti". Per approfondire alcuni di questi concetti credo che utile risulti la lettura simultanea di un libro che molta fortuna ha avuto negli Stati Uniti. Si tratta di Mario Salvadori, Perché gli edifici stanno in piedi, finalmente tradotto negli Strumenti Bompiani.
Il terzo livello del volume di Nicoletti è rappresentato dagli incisi, dai paragrafi, dalle notazioni che l’autore dedica alla personalità dell’amico.
La modestia e l’understatement è il tratto di Musmeci, la curiosità è il motore delle sue esplorazioni in campi apparentemente remoti (musica, astronomia, navigazione) dalla sua professionalità , la capacità di sintesi creativa è la sua particolarità, la sua magia.
Scrive Nicoletti. "È stato difficile per me accettare l’invito rivoltomi da Bruno Zevi di scrivere una monografia su Sergio Musmeci, perché non mi sono ancora rassegnato alla sua scomparsa. (...) Musmeci venne colpito da un male fulmineo proprio nel momento in cui la sua personalità di architetto e scienziato giungeva a maturazione e iniziava a realizzare opere significative, a provare l’originalità e la concretezza delle sue teorie trasgressive.
Questa sua originalità
discendeva anche dalla sua ricchezza di saperi e di interessi diversi,
tutti coltivati in profondità. Alla laurea in Ingegneria civile
aveva affiancato, all’inizio degli anni Cinquanta, quella in Aeronautica.
Dominava quindi l’aerodinamica e le discipline legate all’alta tecnologia
delle costruzioni leggere. Ma la sua forza segreta era in quello che lui
chiama ‘studiare alla Rousseau’, un vagabondare fra libri e argomenti spesso
scelti a caso traendone ‘un succo personale senza limiti di tempo e di
disciplina’".
Musmeci usava
la parola cibernetica, cioè, per lo Zingarelli, "la teoria dei sistemi
di controllo che si serve in particolare di analogie tra le macchine e
il sistema nervoso degli animali e dell’uomo". In un momento in cui l’attenzione
ai rapporti tra scienza, architettura, struttura, natura ha nuova forza
grazie all’informatica, Sergio Musmeci non ci appare affatto come un precursore,
ma un quasi indispensabile compagno di strada.
Antonino Saggio
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Pubblicato originariamente su
Antonino Saggio
RICCARDO MORANDI. CEMENTO D'AUTORE
Costruire,
n.102, novembre 1991 (pp. 163-42).
e
Domus
Editoriale Domus, Milano. Direttore V.M.Lampugnani/F.Burchardt.
Sez. Libri: Gianmario Andreani
Antonino Saggio
SERGIO MUSMECI di M. NICOLETTI
Domus, n.
815, Maggio 1999 (p. 116).
I libri cui si fa riferimento nell'articolo sono
Manfredi Nicoletti
Sergio Musmeci, Organicità di forme e
forze nello spazio,
Testo&Immagine, Torino 1996, pp. 96
Giuseppe Imbesi, Maurizio Morandi e Francesco Moschini (a cura di)
Riccardo Morandi
Gangemi, Roma, 1991
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