2. Giappone e California. Sponde vicine di Antonino Saggio La sponda americana e giapponese del Pacifico si guardano separate da migliaia di chilometri di acqua ma unite da milioni di storie. Tra queste anche quelle dell’arte e dell’architettura. Nell’Ottocento, la scoperta dell’arte
giapponese ha rappresentato il detonatore di una nuova visione del mondo
(luce, atmosfera, colore e superfici piane contro volume, prospettiva,
massa). In pittura Manet, in architettura Wright. Che studia la rottura
della scatola, la fusione tra architettura e natura, lo slancio giapponese
degli aggetti e si trasferisce a Tokyo (1915-1921) per dirigere la costruzione
di un’opera gigantesca. Poi, come tutti i geni, ricomincia, e in California
erige costruzioni che guardano a un mondo atavico, lapideo e piramidale,
antitetico alla leggerezza giapponese. È un suo allievo che riscopre
i fili dell’arte dell’estremo oriente innestandovi un sentire per linee,
che ha dentro il proprio sangue viennese. Rudolph Schindler disegna case
leggere, trasparenti, elegantissime, provvisorie e vibranti come i rami
e le foglie. Sono ispirate ai templi shintoisti che si ricostruiscono ogni
4 lustri e come quelli rappresentano un inno al continuo rinnovarsi della
vita. È un sentire opposto a quello della nostra infanzia greca:
alla permanenza, immobilità e solidità si sostituisce il
mutamento: la sola legge eterna, pare insegnare l’arte e l’architettura
giapponese.
Questi legami tra Giappone e California, e altri che ciascun lettore potrà intessere, sono rintracciabili attraverso la lettura contemporanea di due volumi della Taschen. Kobayashi, si sofferma sul "costante rinnovamento" come categoria della cultura giapponese e la usa per un rapido excursus che tocca anche i temi della città. Il suo campione è Toyo Ito, un architetto che si ispira alla natura e al vento. Dirk Meyhöfer spiega che "per i giapponesi la simmetria non è in alcun modo detentrice di forza e di potenza, e così non appare nella loro architettura". È una chiave di lettura che affonda nell’architettura tradizionale e che l’autore evolve sino a spiegare l’emergere dei Metabolisti, un gruppo di avanguardia degli anni Sessanta, che progetta architetture vegetali e biologiche. Insomma "nella filosofia orientale, l’incompiuto, il frammentario e l’inespresso sprigionano una forza maggiore di ciò che è compiuto e di ciò che è stato del tutto espresso". Da questo sentire al mondo caotico della metropoli giapponese il passo è breve. Naturalmente il succo del libro è nell’illustrazione delle opere di Ando, Fujii, Hara, Hasegawa, Ishii, Isozaki, Ito, Kurokawa, Maki, Mozuna, Shinohara, Takamatsu, Yamamoto. Emerge la singolarità di Ando con il suo "bisogno di ordine per dare dignità alla vita" di ascendenza kahniana che però, al contrario del maestro di Philadelphia, determina architetture che si insediano nei luoghi e li conformano attraverso sapienti relazioni tra interno ed esterno (altro tema giapponese, a partire dalla famose case del Tè). Isozaki sostiene che "quadrati e cerchi sono gli unici strumenti affidabili dell’architetto" e crea opere basate su poche mosse, che spesso risultano decisive. Maki per anni ha ibridato il linguaggio neo-razionalista dei Ny Five con il "non finito" della sua terra. Ultimamente, soprattutto nel centro sportivo di Tokyo , emerge anche una nuova ispirazione con le coperture come gusci di giganteschi scarabei;. Shinohara (nato nel 1925 e, come i coetanei Maki e Isozaki, fautore del Metabolismo) considera che "il caos è la condizione, il fondamento dell’esistenza delle odierne città" e progetta edifici come moderni totem. Un tema portato avanti con una violenza al limite del sadismo da Takamatsu che sostiene "le mie case sono come armi". Ma la violenza, in architettura, dovrebbe essere valore etico (vedi le fortificazioni fiorentine di Michelangelo), non armatura alla Matzinga. Sul fronte opposto, che vuole intessere
rapporti con la natura, oltre al citato Ito, lavora Hasegawa, l’unica donna
presente nella selezione ("con l’aiuto di simboli d’ordine naturale, la
mia architettura deve cercare di dar vita ad un autentico teatro"), Hara,
"con il mio design aspiro a eliminare la linea di confine tra natura e
architettura", e Yamamoto che libera sempre gli edifici verso l’alto creando
permeabili filtri tra architettura e cielo. Un’altra serie di progettisti,
si muove sul fronte dell’ibridazione tra storia e attualità come
Fujii ("Cerco di sfuggire all’armonia"), Ishii "voglio piegare le potenzialità
della nostra storia dell’architettura alla realtà odierna", Kurokawa
("l’eclettismo è sempre fonte di nuova cultura") e Mozuna che teorizza
un "Barocco del Futuro" che porta a esiti più sorprendenti che convincenti.
Il libro dedicato alla California, ha la medesima struttura, ma contiene un unico saggio esteso e approfondito. I fili principali della storia dell’architettura californiana sono tesi con nitidezza fino ad oggi. Ne risulta, per esempio, che il contesto in cui Gehry emerge alla fine degli anni Settanta non è particolarmente ricco o stimolante, perché nelle grande dispersione di quel territorio annacquati risultano i semi piantati da Wright, Schindler, Neutra. Jodidio fa assumere all’architettura di Gehry il ruolo di catalizzatore della nuova situazione e alla scuola Sci-arch (diretta da Michael Rotondi) quello di diffusione.
Una tesi che spiega la selezione critica
degli architetti presentati nel corpo del volume e certamente una delle
possibili chiavi di lettura. Forse altri autori non avrebbero tralasciato
di citare l’opera di Charles Moore, almeno nella sua fase tra gli anni
Sessanta e Settanta che tentava di scoprire nuove leggi formative nel libero
costruire dei villaggi costieri, oppure il lavoro di Christopher Alexander
(un altro viennese-californiano come Schindler, Neutra o Gruen) e i suoi Patterns(forme
ricorrenti derivate da una sorta di architettura-antropologia). Una ricerca
che si intreccia con il mito della "nuova frontiera" di cui la California
è il simbolo. Rimane il fatto che il saggio è stimolante
ed è un ottimo viatico per vedere l’opera degli architetti presentati.
A parte Gehry, e i suoi diretti continuatori ed epigoni, come i giovanissimi
Asymptote o i Morphosis, emergono una serie di architetti che sviluppano
un interessante misto tra sicurezza professionale e composizioni libere,
luminose, spesso aperte nel paesaggio (Central office of architecture,
Cigolle & Coleman, Ehrlich, Jones, Israel, Niles, Hodgetts + Fung,
i più giapponesi tra i californiani).
Certo l’opera di Eric Owen Moss non
passa inosservata per la sua capacità di levigare i materiali in
dissacranti sculture contemporanee, ma anche una architettura lieve e femminile,
adagiata e trasparente sul paesaggio, come quella della Hallberg, che con
un fare didattico e semplice rivela la sicurezza di una scuola di pensiero.
Infine viene presentata una casa nel deserto di Schweitzer formata da una
serie di cubi deformati, colorati e parlanti che pare chiudere il circolo.
Fa pensare che se nella California c’è il mare che la lega alla
leggerezza orientale, c’è anche il deserto che si sente appena fuori
Los Angeles. E, con il deserto, la pietra e un sentire radicato nel sud
del continente che dal Messico al Perù si estende lungo il cammino
della antica storia pre-coloniale. Wright stesso daltronde lo aveva sentito.
Taliesin west è lo sposalizio di due mondi: quello della leggerezza,
del piano, della tessitura vegetale, dell’aprirsi della fabbrica alla natura
e quello opposto del difendersi, del creare muri e volumi che si radicano
al suolo.
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Domus
Editoriale Domus, Milano. Direttore V.M.Lampugnani/F.Burchardt.
Sez. Libri: Gianmario Andreani
Antonino Saggio
recensione a CONTEMPORARY CALIFORNIA ARCHITECTS
Domus, n. 799, Dicembre 1997 (p. 94-95)
with English Text
Philip Jodidio, Contemporary California
Architects, Taschen, Colonia 1995
Dirk Meyhöfer, Contemporary
Japanese Architects, con un saggio di K. Kobayashi, Taschen, Colonia
1994