40. Cronaca più storia in Paul Heyer
Architects on Architecture è uno dei più
chiari esempi di una critica "di servizio". Mentre in Italia siamo abituati
a una critica schierata, che intreccia filosofia e politica per affermare
una visione del mondo, uno sforzo di oggettività e di equilibrio
muove questa indagine. Il fine è rendere intelligibile l'architettura
attraverso una lettura in simpatia con gli sforzi dei progettisti. Agli
strumenti che mutuano dall'arte la tensione trasgressiva (la volontà
di essere contro lo status quo) qui si sostituiscono i mezzi della cronaca:
il rigore, l'accuratezza, la serietà e appunto uno sforzo tutto
anglosassone di oggettività. Il materiale alla base del volume è
rappresentato dal lavoro e dalle idee di quaranta architetti tra loro molto
diversi, selezionati senza opzioni di tendenza o di stile. Li accomuna
l'operare negli Stati Uniti ed essere tutti - per qualità, quantità
e impatto culturale della produzione - di notevole importanza. L'interesse
del campo di indagine (l'America degli anni Sessanta), l'approfondimento
degli argomenti, l'intelligenza della scrittura fanno di questo volume
un esempio di volta in volta definito dagli addetti ai lavori "vigoroso",
"realizzato stupendamente", "bellissimo".
Il libro può essere fruito in due modi. Come fonte
di conoscenza sul singolo progettista, quindi in maniera non sequenziale,
oppure come un racconto continuo. In entrambi i casi funziona benissimo.
Rileggere i capitoli su Ludwig Mies van der Rohe, su Walter Gropius, su
Louis Kahn, su Philip Johnson, su Richard Neutra, su Frank Llyod Wright
o su personalità meno note ma intriganti come Herbert Greene, Bruce
Goff, John Johansen o su astri degli anni Sessanta poi eclissati come Paul
Rudolph o su quelli che hanno continuato una vigorosa carriera come Ieoh
Ming Pei o Kevin Roche è di straordinario interesse. Ma forse altrettanto
utile è raccogliere le idee su attori della scena statunitense che
provengono dall'Italia come Pietro Belluschi, Romaldo Giurgola e Paolo
Soleri o su molti altri progettisti che hanno fortemente influenzato il
contesto culturale e professionale, il modus operandi della progettazione
negli Stati Uniti.
Ciascuno dei quaranta capitoli del libro - che si estende
sino alle sedici pagine di fitto testo - è dedicato a un architetto
senza differenziazione di peso, di collocazione, di gerarchia. Quello che
muove la scrittura è capire il percorso formativo, le esperienze,
le idee e soprattutto il metodo di ciascuno. Vengono descritte e illustrate
le opere più rappresentative e ciascun saggio, arricchito da utili
note biografiche, include degli ampi estratti di quanto l'architetto ha
discusso con l'autore. Paul Heyer vuole porsi di fronte all'architettura
scevro da pregiudizi - tanto è vero che praticamente mai pareri
di altri autori vengono raccolti. Nessun volo pindarico, nessuna struttura
mentale costruita a-priori. Solo un esteso lavoro di ricerca, di comprensione
e di sintesi. Il risultato è quasi sempre importante. Il profilo
del progettista in esame, per profondità e completezza, serietà
e ricchezza di informazioni è paragonabile (e spesso superiore)
alle introduzioni che spesso troviamo nelle monografie, pur se patinate,
d'oggi.
Ma il libro si può leggere anche in maniera continua
e scoprirne così una seconda struttura. Nella premessa "The development
of new architecture" l'autore ci fa capire da che parte starebbe il suo
pensiero se avesse voluto scrivere una Storia invece di una cronaca: il
filo che da Louis Sullivan e la scuola di Chicago arriva a Mies van der
Rohe. E infatti il libro si apre con il grande costruttore tedesco, di
cui l'intero percorso è ricostruito sino agli ultimi concetti (lo
spazio universale, il contenitore per qualunque funzione). A Mies seguono
altre personalità direttamente associabili alla sua lezione (Jacques
Brownson, Harry Weese) ma poi altre che se ne allontano progressivamente
(Bertrand Goldberg, Ralph Rapson). Si arriva così a Wright seguito
da Goff, Soleri, Greene per arrivare a degli approfondimenti sulla cresciuta
della architettura moderna in California e sul Bay Region (Craig Ellwood,
Edward Killingsworth, Quincy Jones, Vernon DeMars, Joseph Esherick) e poi,
attraverso l'esame delle peculiarità dell'area di Los Angeles, a
Richard Neutra.
Il percorso riprende per soffermarsi su Marcel Breuer, Josè Sert naturalmente Gropius e, attraverso Benjamin Thompson, all'esperienza di The Architects Collaborative. In alcuni casi è possibile ricostruire anche lo sviluppo dell'insegnamento dell'architettura nelle facoltà di maggiore prestigio perché, sostituendosi ai grandi maestri emigrati dall'Europa, progettisti come Thompson ad Harvard, Brownson all'Università del Michigan e Belluschi all'Mit vi assumono responsabilità direttive. Verso le fine del libro vengono inserite le personalità più singolari, nuove e allora emergenti, Rudolph, Pei, Johansen, Roche, Edward Barnes, l'appena scomparso Eero Saarinen. Il libro termina con Louis Kahn, un genio isolato.
Nel complesso un affresco eccezionale (che non è
esteso però con pari approfondimento al decennio successivo perchè
nella seconda edizione troppo schematici sono i paragrafi dedicati ad architetti
come Charles Moore, Richard Meier, Robert Venturi, Gunnar Birkerts che
proprio negli anni Settanta cominciano a emergere sulla scena statunitense).
La struttura del volume ha un grande merito. Il lettore
può delineare dei filoni: la persistenza dell'impostazione di Mies,
che nell'America del primo dopoguerra era stata assolutamente vincente,
la convinzione della necessità del rapporto con l'industria di Gropius,
la figura del creatore singolo che si trasmette in pochi, ma interessanti,
continuatori di Wright, l'emergenza di un professionismo colto e attento
alla forma quanto all'organizzazione produttiva dei grandi studi come quello
di Skidmore Owings and Merril o di Minoru Yamasaki. Ma il lettore può
anche cogliere l'interesse di figure eccentriche, come Buckminster Fuller
o Wilson Wurster senza la necessità di inquadrarle in una precostituita
cornice critica.
Per il lettore di oggi il libro ha tutta l'importanza
di un documento storico. Scopriamo così una intrigante inversione:
le Storie più accreditate di questo secolo sono state un veicolo
per il formarsi delle idee degli architetti (la linea produttiva che parte
da William Morris, la nuova rivoluzione percettiva del Cubismo, la necessità
dell'architettura organica o l'intransigenza funzionalista, il regionalismo)
le poche vere cronache che abbiamo a disposizione - come questa di Heyer
- si trasformano invece in veri e propri documenti di prima mano. Ne risultano
i luoghi comuni e le speranze, i tentativi e i successi, i problemi insoluti
(in quella fase soprattutto la consapevolezza della difficoltà di
creare un vitale ambiente urbano sulla base dei soli principi ereditati
dalla carta d'Atene). Con l'abituale sferzante sintesi Philip Johnson ha
detto che "se si vuole sapere cosa noi tutti pensavamo negli anni Sessanta,
è questa la fonte preziosa". Difficilmente il lettore che vuole
approfondire le vicende dell'architettura statunitense potrà fare
a meno di questo volume. Ma proprio per il suo essere cronaca "oggettiva",
scevra quindi da scelte di parte, non possono che risultare sottovalutati
alcuni sintomi presenti già negli anni Sessanta che diverranno decisivi
solo successivamente. Non vi è progettista che non ribadisca in
questo volume la preoccupazione sociale e quella tecnologica, quella estetica
e quella costruttiva come aspetti simultanei e concomitanti alla definizione
del progetto. È esattamente questa visione unitaria dell'architettura
(e dell'architetto) che non reggerà più nella cultura statunitense
dei decenni successivi. Il mondo dell'architettura, dopo la morte dei maestri
esploderà in una miriade di particolari. È il big-bang, di
cui già su queste pagine abbiamo parlato, che porta a una serie
di microcosmi chiusi in se stessi che si basano sull'esclusione. Form Follows
Fiasco di Peter Blake si sostituisce alla massima la Forma segue la funzione.
Robert Venturi sostiene che compito dell'architetto è decorare facciate
in un modo simile al disegnare le etichette su una scatola di minestra,
Peter Eisenman vuole che tutto diventi testo, Michael Graves crede solo
al collage come arma di progetto, un collage carico di memorie. L'architetto
intellettuale-tecnico-artista degli anni Sessanta, aperto a risolvere simultaneamente
molti problemi, nei due decenni successivi si frammenta cercando nell'architettura
l'affermazione di tesi concettuali, oggettuali, revivalistiche, metaforiche.
Altre figure professionali gli sorgono accanto per dipanare gli aspetti
pragmatici del lavoro.
Steven Holl, Mark Mack, i Morphosis, Frank Gehry, e altri,
che magari ancora non conosciamo, cercano oggi una via nuova. Servirebbe
una cronaca del valore di questa di Heyer per avere un quadro esauriente.
Per capire, però, serviranno altri trent'anni.
***
Ci sono diversi modi per presentare l'architettura recente di un grande paese, in questo caso gli ultimi tre decenni in Nordamerica. Vi è la guida per regioni o città significative, la cronologia degli ismi (Funzionalismo, Neo-razionalismo, Post-modernismo, Regionalismo, De-costruttivismo), il protagonismo delle star oppure l'impostazione tipologica (grattacieli, scuole, musei eccetera). Esistono esempi, anche di autori italiani, ma la strada di questo libro è diversa.
Circa trecento opere in American Architecturedi Paul Heyer sono raccontate entro le categorie dell'architettura stessa: Problemi e processo, Forma funzione e concetti di spazio, Struttura tecnologia e nuovi mezzi, Luogo come imperativo, Idea come catalizzatore, Ordine come contesto, Coerenza e/o inclusività, Inevitabilità dello stile. Se questi sono i capitoli, si capirà subito il perché di titolo e sottotitolo. L'Architettura americana serve a illustrare delle Idee: la finalità informativa si somma a quella saggistica.
Dal punto di vista informativo, l'ampia selezione, che
certo anche al lettore più avvertito consentirà nuove scoperte,
è basata sulla rilevanza di ciò che è in esame e non
su a-priori stilistici: troviamo così, in maniera abbastanza inusuale
per chi è abituato a una critica schierata, Bruce Goff e Herb Green
collocati quasi accanto a Venturi e Rauch oppure Michael Graves e Stanley
Tigerman non distanti da Peter Eisenman e Richard Meier. O anche Paul Rudolph
e I.M. Pei, Kevin Roche e i Morphosis, Frank Gehry e Robert Stern. Insomma,
alle contrapposizioni e alle censure si sostituisce la volontà di
superare barriere preconcette per seguire l'evolversi e il rimescolarsi
delle idee: tendenza verso una "Transarchitettura" che forse diventerà
una caratteristica di libertà e di apertura problematica di questo
fine secolo. Oltre alla mole e allo sviluppo della selezione, dato saliente
di questo sforzo informativo è la scrittura. Le architetture non
vengono solo citate ma sempre descritte nelle peculiarità delle
soluzioni. Le parole trasmettono al lettore i contorni vivi di un edificio
studiato di persona. Le scelte che hanno guidato il progetto sono centrate
con intuito e "sceneggiate" con l'efficacia di chi la ricerca sul tavolo
da disegno conosce e la forza sintetica dell'inglese padroneggia.
Basterebbe per consigliare la lettura ma è la struttura saggistica il vero valore aggiunto del libro. L'impostazione di base? "Oggi vi è un bisogno di ristabilire le domande veramente fondamentali piuttosto che affidarci troppo religiosamente alle nostre effimere conclusioni" e anche "Arte è risolvere problemi che non possono essere formulati fino a che non sono risolti" (attraverso le parole di Piet Hein, in evidente frizione con la formula di Tafuri "l'arte non indica soluzioni ma problemi").
Il primo capitolo è guidato dall'idea secondo cui è la funzione, ben espressa e rappresentata, la chiave dell'architettura. Ma l'assioma si sfaccetta in cento piani perché dalle premesse già di per sé divergenti di Mies e Wright si passa a Marcel Breuer a Louis Kahn a Gunnar Birkerts a Romaldo Giurgola ai continuatori di Gropius di The Architects Collaborative sino a John Portman. Un altro capitolo è dedicato all'idea di struttura e tecnologia come forza trainante nell'organizzazione dell'edificio. La parte del leone spetta a Rudolph per il suo incessante sperimentalismo, ma vi è anche un'analisi dell'evoluzione dell'edificio alto (la contoventatura diagonale del grattacielo Hancock, l'innalzare masse distinte della Sears Towers, la combinazione dei due approcci della Bank of China di Pei). Attenzione è posta anche a edifici che rivelano un approccio "ecologico" verso l'uso intelligente delle risorse in controtendenza rispetto alla totale artificialità di una lunga fase. Non solo Paolo Soleri, ma anche Skidmore Owings and Merril che in più di un'occasione hanno intrapreso questa via.
Il luogo come imperativo è forse il capitolo più denso. Con efficacia Paul Heyer usa quali parametri l'idea dell'edificio "sul" sito di Mies e Le Corbusier (e poi del primo Meier), quella dell'architettura "del" sito, secondo la formula di Wright, sino alle ipotesi in chiave regionalista di architetture "nel" sito di Fay Jones e soprattutto degli architetti californiani tra gli anni Sessanta e i primi anni Settanta. In questo capitolo emerge con forza un secondo strumento di lavoro del critico che, alla perizia descrittiva sulla singola opera, associa l'intelligenza ai raccordi. Un montaggio mirato e strumentale è usato spesso, come quando, per far capire il riemergere di una idea scenografica dello spazio vuoto "tra" gli edifici, l'autore accosta un'opera di inzio secolo (il palazzo delle Belle Arti di San Francisco, inserito in un romantico landscaping ai bordi dell'oceano) all'impianto polidirezionato del campus a Santa Cruz di Moorer a una casa-piazza di Edward Larrabee Barnes.
Ma molti altri accostamenti sono rivelatori. Il lavoro di Gehry, per esempio, è preceduto da quello di John Johansen per farci implicitamente cogliere che l'assemblaggio di pezzi scultorei del canadese-californiano ha nell'autore del Mummers theater un diretto anticipatore. (A chi legge trovare altri raccordi: gli spazi pubblici di Gehry non devono forse molto anche allo stage-set di Charles Moore, quando alla nostalgia delle Piazze d'Italia si sostituisce il recupero della pop-art?)
L'idea come catalizzatore ha come simboli il Guggenheim
di Wright e il Visual art Center, l'edificio attraversato da una rampa
di Le Corbusier a Cambridge, ma da Ulrich Franzen a Kevin Roche da Steven
Holl ad Arquitectonica ai Site molti altri edifici-idea si susseguono.
Ordine come contesto è un capitolo che sembrerebbe nascondere una
griglia rigorista. In realtà è la tensione tra ordini compositivi
diversi, tra compatibilità scontate e incompatibilità rivelatrici
quello che interessa l'autore. Per cui, agli esempi canonici di Kahn, cui
però si attribuisce un classicismo da ridiscutere, e ai lavori dei
New York Five seguono composizioni basate su logiche dinamiche, su sovrapposizioni,
sulla co-presenza di più sistemi interagenti come quelle dell'ultimo
Eisenman o di Bernard Tschumi. Il capitolo si chiude con Antonine Predock,
un progettista forse sottovalutato in Italia.
Coerenza o inclusività si apre ricordando come dal principio della "esclusione" (tipico dell'interpretazione miesiana del modernismo) si passi per fasi alla totale inclusività, al pastiche, al collage, agli ibridi divertenti quanto grotteschi di alcune prove disneyiane di architetti per altro dotati. In questo capitolo viene tracciata anche una evoluzione dell'estetica del grattacielo puntualizzata attraverso le ricerche di Cesar Pelli, Murphy-Jahn, Kohn-Pedersen-Fox naturalmente Johnson-Burgee e Roche-Dinkeloo.
Il libro passando in esame anche l'opera di architetti che in genere non appaiono nelle riviste di cultura architettonica termina con Pei-Cobb-Freed cui l'autore, forse non a torto, attribuisce un ruolo centrale nella architettura statunitense.
Come in tutti i libri di grande respiro, naturalmente,
colpiranno alcune assenze (Mark Mack, Louis Sauer, Christopher Alexander)
e certo da discutere per gli addetti ai lavori vi è sui pesi attribuiti
ai diversi progettisti, ma il libro ha ancora un altro pregio; di
nuovo in controtendenza. Negli anni Sessanta questo autore ha pubblicato
un volume molto popolare da poco ristampato. Un libro fatto per schede
"oggettive" su quaranta protagonisti della scena statunitense di allora.
Architects
on Architecture fu un esempio fortunato di cultura a mosaico, cioè
analitica, precisa, quasi asettica; di grande puntualità
nel "servizio" offerto al lettore, volutamente poco interessata al quadro
di insieme. Oggi che questo modo di procedere è più abituale
e che pochissimi autori si cimentano in sforzi complessivi, Paul Heyer
dimostra come tasselli disegnati e selezionati con cura possano essere
montati insieme (qui con rara intelligenza, competenza e cultura) a formare
un "grande affresco". Non per una ricetta di pronto consumo, ma per aiutarci
a cercare, per orientare il pensiero a interecciare idee ed esperienze.
Antonino Saggio
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Pubblicato originariamente su
Antonino Saggio
ARCHITECTS ON ARCHITECTURE DI P. HEYER
Antonino Saggio
AMERICAN ARCHITECTURE di P. HEYER
Domus, n. 780, marzo 1996 (p. 96-97).
I libri cui si fa riferimento sono
Paul Heyer
Architects on Architecture. New Directions in America
Van Nostrand New York, 1964, 1978, 1993
Paul Heyer
American Architecture. Ideas and Ideologies in the Late Twentieth
Century
Van Nostrand New York, 1993
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